Vince due Oscar (miglior regia e miglior film) tra innumerevoli candidature, vince il Leone d’Oro alla 74esima Biennale di Venezia, vince due Golden Globe, vince il cuore e l’ammirazione del pubblico, in una contemporaneità cruda dove è sempre più difficile raccontare delle favole. La Forma dell’Acqua mette il messicano Guillermo Del Toro in pari con gli altri due dei Tre Amigos del cinema messicano Iñarritu e Cuaròn, già vincitori dell’ambita statuetta.
Negli Stati Uniti della Guerra Fredda, Elisa è una donna delle pulizie che vive isolata nel suo mutismo e in una quotidianità monotona fatta di lavoro, ripetizione e lunghe attese sull’autobus che la trasporta dal lavoro alla sua minuscola tana ubicata sopra un vecchio cinema. A renderla viva in un’esistenza tanto sbiadita la aiutano l’anziano vicino di casa Giles– un illustratore pubblicitario in declino, e la forte e carismatica collega di lavoro di colore Zelda. Tutto inizia a cambiare quando la vorace curiosità della protagonista le fa conoscere il più grande segreto custodito nella struttura militare dove fino ad allora si era limitata a passare il panno e pulire i bagni. Una creatura acquatica umanoide, intelligente e sensibile, è prigioniera di scienziati e militari, a capo dei quali un ambizioso e crudele aguzzino ne rende la vita un tormento, con lo scopo di carpire i segreti della sua esistenza. La donna e la creatura scoprono presto di condividere molto di più che l’inabilità di parlare, e maturano in gran segreto un rapporto che si trasforma presto in un amore con la A maiuscola. Naturalmente lei cercherà di salvarlo, e ad aiutarla non mancheranno i suoi due unici amici, nonché l’aiuto di uno scienziato russo sotto copertura che comprende l’importanza di preservare la vita di una creatura tanto unica. Da questo punto in poi scatta l’allarme spoiler, quindi lascio a voi scoprire il resto di questa storia andandolo a vedere o leggendo la recensione film completa.
Del Toro ha dichiarato che ambientare il film in un’epoca passata gli ha permesso di portare lo spettatore ad ascoltare i personaggi e le tematiche della storia, piuttosto che a fermarsi al contesto di quelle tematiche, il che rende la sua opera “una favola per tempi duri” perfettamente attuale. La muta Elisa e l’omosessuale Giles (peraltro eccellente in un lavoro ormai ritenuto sorpassato) vivono fuori dalla loro contemporaneità, al punto di trovare gioia e complicità nel cinema e nella musica di almeno trent’anni prima – il che non ci fa dimenticare l’amore di Del Toro per le citazioni artistiche. Giles addirittura si confida con la creatura, ammettendo di essere nato nel periodo sbagliato. E poi Zelda, costretta a vivere nello stato che fa della libertà una bandiera per tutti, tranne che per i suoi cittadini di colore. Dopotutto la creatura non poteva incontrare amici più adatti e simili a lui, branchie a parte. Tutto, dalla sceneggiatura alla fotografia, è lineare, preciso, coerente, perfetto. Il film è anche meraviglioso omaggio e redenzione di uno dei personaggi fantastici più cari a Del Toro, il mostro della laguna. Magari chi era stato conquistato dall’indistricabile intreccio tra realtà e fantasia de Il Labirinto del Fauno, stavolta rischia di non divertirsi granché a intuire facilmente lo sviluppo delle vicende fin dalla sequenza di apertura, in una favola dove tutto ciò che accade è necessariamente reale. Del Toro lotta strenuamente contro le rigide strutture della sua educazione giovanile cattolica e del contesto politico dove è nato come artista, e forse è questo il fil rouge che, alla fine, sempre secondo le sue parole dovrebbe fare di tutta la sua cinematografia un unico grande film. Dal Labirinto ai due episodi di Hellboy, da La Spina del Diavolo al blockbuster Pacific Rim, Del Toro rende sempre chiara la sua firma con un linguaggio unico e potente.
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